Daniel Pennac: il traduttore è lo psicanalista dell’autore
Riportiamo oggi il discorso pubblicato sul sito www.wuz.it allo scrittore Daniel Pennac, in occasione del ritiro del premio consegnatogli in durante le Giornate della Traduzione di Urbino.
La traduzione dell’intervento è di Yasmina Melaouah, traduttrice ufficiale dell’amatissimo scrittore francese.
Le sue parole rendono ben evidente perché la giuria abbia deciso di premiare Daniel Pennac, ma le motivazioni “ufficiali” sono state così indicate dalla commissione: per l’inesausta disponibilità con cui affianca i suoi traduttori nelle varie fasi dell’interpretazione e della resa linguistica; per la generosa attenzione mostrata nei confronti delle loro condizioni di lavoro; per l’ideale testimonianza sul valore della traduzione di cui è portatore nel mondo della cultura.Cari amici traduttori, luci della mia Pentecoste laica, lasciate che vi ringrazi e vi dica il mio stupore, che vi ringrazi per l’onore che mi fate assegnandomi questo premio e vi dica il mio stupore per aver scelto proprio me per questo onore.
Voi dite di essermi grati per il mio atteggiamento generale nei confronti dei traduttori. Quale gratitudine? Cosa sarebbe l’uomo che sono senza voi traduttori? Un uomo che non parla né legge alcuna lingua all’infuori della propria, nemmeno l’inglese; credo peraltro di essere l’ultimo europeo in questa triste condizione. Nemmeno l’italiano, nonostante i trent’anni di amicizia che ci legano. Quest’uomo ha un bisogno vitale dei traduttori, voi siete la mia vita, le mie vite, grazie a voi i miei libri rinascono e attraversano le frontiere. Dico rinascono poiché la traduzione di un testo letterario equivale a una nuova nascita e il ruolo che svolgono i traduttori in questa nascita viene considerato alla stregua di una creazione. La nozione di traduzione è inseparabile da quella di creazione; la pura e semplice trasposizione linguistica non è un atto di traduzione, bensì un atto di duplicazione che produce un ostrogoto incomprensibile. È sufficiente leggere le istruzioni per l’uso della mia lavatrice di origine tedesca, dal design italiano, con l’elettronica giapponese, fabbricata in Corea per essere indotti linguisticamente al suicidio.Affinché un romanzo viva in un’altra lingua è necessario che qualcuno gli dia nuovamente vita in questa nuova lingua e questo qualcuno siete voi. In cosa consiste la nuova vita di un romanzo ben tradotto? In un testo che si incarna in una lingua che non è la sua lingua originale, nel vostro caso l’italiano, tanto da far esclamare al lettore “sembra scritto in italiano”, cosa che non si può dire delle istruzioni della vostra lavatrice. Ma che cosa ha provato l’illusione del lettore? La misteriosa forma dell’ottima traduzione, nella fattispecie la capacità di trasporre in un’altra lingua il lessico classico, popolare dell’autore straniero, il ritmo della sua scrittura, la sua musicalità, i suoi sottintesi, le sue allusioni, le svariate intenzioni dell’autore; in sostanza ciò che non è scritto e che potremmo chiamare lo spirito del testo. Capacità che fa del traduttore una sorta di psicanalista dell’autore. Ma chi dice spirito del testo dice anche spirito della lingua nella quale il testo è scritto, il che fa di voi anche etnologi attenti e linguisti puntigliosi; questa capacità di restituire lo spirito di una lingua straniera nella vostra lingua può nascere solo da una fusione con il testo e con la lingua di partenza, unita a una perfetta padronanza della lingua di arrivo, la vostra. Tale duplice competenza presuppone un’ubiquità linguistica e letteraria o, per essere più precisi, un intuito analogico; questo intuito analogico impone al traduttore di calarsi in una dimensione di ossessività, la quale, fra parentesi, è la stessa del romanziere al lavoro. Nell’esercizio di questa ossessione, Yasmina Melaouah, la mia traduttrice italiana, Eveline Passet, la mia traduttrice tedesca, Vlatka Valentic, la mia traduttrice croata, Akira Mitsubayashi, il mio traduttore giapponese, Sarah Adams, la mia traduttrice inglese, o Manuel Serrat Crespo, il mio traduttore spagnolo – per citarne solo alcuni – mi raggiungono spesso fin nel cuore dei miei testi. Ma l’ossessione, cari amici, lo sapete quanto me, richiede tempo. Richiede durata. E questo tempo, occorre remunerarlo.
Alcuni anni fa, a un convegno in cui mi è stato chiesto cosa pensassi del fatto che il traduttore è lo psicanalista dell’autore (poiché questa idea non è mia, e a quel convegno su di essa erano tutti unanimemente d’accordo), ho detto “sì, sì”, ho applaudito e ho suggerito quindi di allineare la retribuzione dei traduttori a quella degli psicanalisti. Ahimè, fine dell’unanimità. Nessuno era d’accordo con me, salvo i traduttori presenti, molto divertiti dall’idea. Giacché, professionalmente, voi siete schiavi dell’ossessione senza la remunerazione che la sua durata esige. E tuttavia traducete. Molto bene, nel caso di parecchi di voi.
Quando mi capita di leggere un romanzo straniero mal tradotto, prima di incolpare il traduttore mi chiedo sempre quanto tempo gli è stato concesso per entrare in intimità con il testo e nella profondità delle due lingue in gioco. E quando mi capita di leggere un’ottima traduzione la mia prima reazione è la gratitudine assoluta per il traduttore che ha trovato il tempo per la propria ossessione, che si è consacrato all’utopia letteraria, nonostante una logica di mercato che si interessa alle lettere solo quando diventano cifre, grosse cifre, e che non distingue tra la letteratura e le istruzioni per l’uso delle nostre lavatrici.Di tutto questo, dunque, della vostra ubiquità, della vostra ossessività, del vostro impegno a far sì che ogni singolo romanzo si inscriva nella letteratura universale, vi ringrazio.
a cura di Paola Pedrinazzi
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